Quando il calcio era un gioco
Un giocatore predisposto alla lealtà.
Facchetti è stato un degno rappresentante del vecchio calcio della nostra infanzia, quando il calcio era ancora un gioco.

Magari lo era meno di quanto ci sembrava, il denaro circolava già in dosi venefiche, il mondo stava preparandosi tutto intero, anima e corpo, alla sua minuziosa, totale compravendita.

Ma ancora non lo sapevamo, e certamente non lo sapevano e non lo volevano sapere uomini come Facchetti, che pareva l’incarnazione stessa dello sport fatto solo di fiato e di muscoli, di prato e di pallone. Lo sport degli atleti. Facchetti era una statua, non aveva malizie tecniche, la sua stessa potenza fisica lo predisponeva alla lealtà, alla corsa nitida, al confronto a testa alta.

Da dirigente era lo stesso uomo, davanti ai microfoni come dietro le quinte gli mancavano furbizia dialettica e capacità di calcolo, e la scelta di farlo presidente (in mezzo a tutti quei marpioni) è stata nobile e felice: un tratto vero di distinzione e di probità. Gli hanno voluto bene in molti, perfino tra noi giornalisti che, come amici, valiamo in genere appena il tempo di un’intervista.

L’ultima volta che l’ho visto è stato pochi mesi fa, una sera milanese fradicia e nebbiosa, davanti al teatro dove recitava suo figlio. Siccome noi tifosi siamo scemi, quando è sceso dalla macchina, in una viuzza da niente, scura e anonima, mi è sembrato che si accendessero i riflettori di San Siro.

M. Serra
da: La Repubblica